Surreali ed ispirate, da qualche anno si affacciano sulla scena le ballate di Canemorto, progetto, dal nome piuttosto discutibile, a cui fa capo Antonio Nardi, già leader dei Colya, seguito per l'occasione da Leopoldo Giachetti, Martino Mugnai (Velvet Score) e Leonardo Baggiani. Inutile proseguire sulla scia dei riconoscimenti che la giovane formazione ha già ottenuto (vedi almeno la vincita nel 2008 del Premio Fabrizio De Andrè nella categoria: "Miglior canzone d'autore" e "Miglior interprete”), perché in questo omonimo lavoro tutto sembra davvero parlare da sé. E' infatti un marcato gusto del curato e un'estrosa tendenza alla qualità degli intenti ad imprimere il carattere, fornendo, anche nei momenti in cui viene meno, le coordinate per destare attenzione.
Giostrato essenzialmente su una personale prospettiva del cantautorato nostrano, in bilico tra Graziani e Gazzè, il sound di Canemorto si spinge oltre le sue barriere, contaminandolo non solo con aspetti più legati al rock e al pop, ma anche conferendo una personale visione dello stesso. D'altronde è proprio quella particolare unione di ironia, introspezione, sogno e stralunatezza a dare al disco quel quid in più e, una volta caduti in questa trappola, si passa con disinvoltura dalla fase attenzione a quella del vero apprezzamento.
L'unica pecca, e allo stesso tempo valore aggiunto, si lega all'uso dei testi in italiano, i quali riescono sì ad infondere una coraggiosa espressività ma, allo stesso tempo, a tratti, fanno soffrire il disco dell'ostilità delle sue metriche. Si passa però con piacere del tempo tra le sensazioni suscitate, facendone così un ascolto affrontabile con leggerezza, ma che in fondo, proprio grazie a tale disinvoltura, ti entra dentro fino a non andarsene più.
Giostrato essenzialmente su una personale prospettiva del cantautorato nostrano, in bilico tra Graziani e Gazzè, il sound di Canemorto si spinge oltre le sue barriere, contaminandolo non solo con aspetti più legati al rock e al pop, ma anche conferendo una personale visione dello stesso. D'altronde è proprio quella particolare unione di ironia, introspezione, sogno e stralunatezza a dare al disco quel quid in più e, una volta caduti in questa trappola, si passa con disinvoltura dalla fase attenzione a quella del vero apprezzamento.
L'unica pecca, e allo stesso tempo valore aggiunto, si lega all'uso dei testi in italiano, i quali riescono sì ad infondere una coraggiosa espressività ma, allo stesso tempo, a tratti, fanno soffrire il disco dell'ostilità delle sue metriche. Si passa però con piacere del tempo tra le sensazioni suscitate, facendone così un ascolto affrontabile con leggerezza, ma che in fondo, proprio grazie a tale disinvoltura, ti entra dentro fino a non andarsene più.
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